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Sono vicine al traguardo riforme costituzionali che segneranno per decenni il nostro futuro e la qualità della democrazia italiana. Gustavo Zagrebelsky ebbe a dire in un suo intervento che siamo “quasi al punto zero della democrazia”. Nello stesso tempo Michele Ainis denunziava il “silenzio degli astanti”, come se le riforme non ci riguardassero più di tanto. Il 25 aprile, festa della Liberazione che regalò all’Italia la Costituzione democratica, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale che fu l’epilogo della ventennale dittatura fascista, è l’occasione buona per alcune necessarie riflessioni.

Punto di partenza è che la Costituzione repubblicana oggi vigente disegna una democrazia pluralista, basata sul primato dei diritti eguali per tutti e sulla separazione dei poteri, senza supremazia dell’uno sugli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. A questa concezione di democrazia se ne vorrebbe sostituire un’altra: basata sul primato della politica (meglio, della maggioranza politica del momento, non importa di quale contingente colore) e non più sul primato dei diritti. Ora, è vero che in democrazia la sovranità appartiene al popolo (per cui chi ha più consensi, chi ha la maggioranza, ha il diritto-dovere di operare le scelte politiche che vuole), ma è altrettanto vero che ogni potere democratico incontra – non può non incontrare – dei limiti prestabiliti.

Tali limiti presidiano una sfera non decidibile, quella della dignità e dei diritti di tutti: sottratta al potere della maggioranza e tutelata da custodi (una stampa libera e una magistratura indipendente) estranei al processo elettorale ma non alla democrazia. Questa necessità di limiti (che la nostra Costituzione stabilisce fin dal suo primo articolo: «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione») è fondamentale in democrazia. Altrimenti, come già insegnava secoli fa Alexis de Toqueville, può sempre essere in agguato la tirannide della maggioranza. La vera democrazia garantisce spazi anche alle minoranze, spazi veri, effettivi. Perché se questi spazi non sono reali e concreti, se la maggioranza che ha avuto più consenso si prende di fatto tutto, allora l’alternanza, che è la quintessenza, il Dna della democrazia, viene ridotta a simulacro e la democrazia – come minimo – cambia qualità in peggio.

La posta in gioco in sostanza è questa: è meglio il tipo di democrazia voluto dalla Costituzione, oppure quello che si sta cercando di sostituirgli? Quale dei due conviene di più ai cittadini? E ancora: se si punta in particolare ad un fortissimo potenziamento dell’esecutivo, con inevitabili pesanti ricadute sul Capo dello Stato e via via fino al CSM e alla Consulta, come non chiedersi in che misura il “nuovo” sia compatibile con una autentica democrazia? Viene in mente Piero Calamandrei, uno degli artefici della Carta, quando ammoniva che la Costituzione non è una macchina che va avanti da sola. Perché si muova bisogna ogni giorno metterci dentro il combustibile, cioè impegno e responsabilità. Per questo, secondo Calamandrei, una delle peggiori offese che si possano fare alla Costituzione è “l’indifferenza” alla politica (nel senso di partecipazione alla vita della polis), quella che spesso ci porta a dire che: “La politica è una brutta cosa, a che cosa mi serve, ci sono tante cose più interessanti o importanti da fare …. “.

Calamandrei a questo discorso opponeva un apologo, quello dei due migranti italiani, due contadini, che attraversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno dorme nella stiva, l’altro sta sul ponte. C’è una grande burrasca, onde altissime e spaventose. Il piroscafo oscilla e il contadino impaurito domanda a un marinaio che sta succedendo. Il marinaio gli risponde che se continua così in mezz’ora il bastimento va a picco. Allora il contadino corre nella stiva, sveglia il compagno e gli grida: “Beppe! Beppe! Se continua questo mare, il bastimento affonda!”. Ma quello gli risponde: “Che me ne importa…. non è mica mio il bastimento!”.

Questo, secondo Calamandrei, è l’indifferentismo alla politica. Ma attenzione, conclude Calamandrei rivolgendosi ai giovani: “La libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi di non sentire mai”. Un augurio – questo – che vale ancora oggi. Per i giovani e non solo.

Tratto da: lastampa.it

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