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Abbiamo già ricordato nella precedente puntata le conclusioni a cui è giunto il Tribunale di Palermo, laddove si afferma che, sul piano giudiziario, non risulta un apporto di capitali illeciti da parte di Cosa Nostra verso le aziende di Silvio Berlusconi.
Non sono bastate le informative della Dia e della Guardia di Finanza in cui si riferiva delle decine di milioni di euro versati (in “dono”? In prestito?) da Berlusconi al suo caro amico Marcello Dell'Utri.
Secondo la Procura di Palermo dietro a quei soldi vi è il “ricatto” perpetrato dall'ex senatore per “cementare” il proprio silenzio sui segreti appresi grazie al suo ruolo di mediatore nei rapporti con la mafia agli inizi della Fininvest, o ancora rispetto alla nascita di Forza Italia e gli accordi politici.
Ma se vi fosse dell'altro?
Alla luce dell'indimostrata origine di certi fondi acquisiti dallo stesso ex Premier (oggi senatore), il dubbio resta forte.
E se quei soldi ceduti a Dell'Utri non fossero altro che “gli interessi” annui maturati da Cosa nostra, per finanziamenti originariamente dati all'imprenditore Berlusconi?
Sugli antichi rapporti economici della mafia con Dell’Utri, e per suo tramite con il gruppo Berlusconi, sono stati ascoltati in gran segreto molti collaboratori di giustizia. Da Antonino Galliano a Francesco Paolo Anselmo, da Francesco Onorato a Gaetano Grado, e gli storici Franco Di Carlo e Angelo Siino (entrambi deceduti, ndr).
Le affermazioni dei collaboratori non sono state ritenute riscontrate dai giudici del collegio guidato da Raffaele Malizia che nel loro provvedimento di rigetto ricordano i paletti posti dalle sentenze nel momento in cui “nel processo per concorso esterno, però, non è stato mai affermato che Dell’Utri avesse in qualche modo agevolato il riciclaggio di capitali illeciti nelle attività del Berlusconi”.
Tuttavia i pentiti hanno raccontato di rapporti molto stretti.

L'incontro tra Berlusconi e Bontate
A raccontare dell'incontro tra Silvio Berlusconi e Stefano Bontate è un testimone oculare: Francesco Di Carlo. Sin dal primo interrogatorio come collaboratore di giustizia è sempre stato ricco di particolari: “Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente... (…) Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. (…) A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi”. Quell'incontro avvenne nel 1974. “Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. (…) Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. (…) Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri”. E poi ancora: “Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che 'Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti'... Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone... Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: 'Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro'. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: 'Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello...'. E poi aggiunge: 'Le mando qualcuno'”. Quel qualcuno sarà Vittorio Mangano, che era così amico di Dell'Utri che anni dopo l'ex senatore arrivò persino a definirlo “un eroe”, per non aver mai parlato della sua persona ai magistrati. “Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra... Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti”. Fu così che Vittorio Mangano arrivò ad Arcore come stalliere. In cambio Stefano Bontate, ha raccontato il pentito, “ottenne 100 milioni di lire”.
L’incontro del 1974 tra l’allora trentottenne Silvio Berlusconi e il “principe di Villagrazia” Stefano Bontate, così come il contenuto del contratto mafioso mediato da Dell’Utri, è considerato una certezza da tutti i giudici, in tutti i gradi di giudizio. E sul punto le sentenze di merito parlano di riscontri oggettivi e testimoniali.
A riscontro di Di Carlo ci sarà anche la testimonianza di Antonino Galliano, affiliato alla Noce dal 1986, nipote del capomandamento Raffaele Ganci, fedelissimo del Capo dei capi Totò Riina. Galliano ha raccontato ai magistrati quanto apprese da Cinà sui soldi che Berlusconi versava alla mafia.
Il pentito ha anche raccontato che ci sarebbero state due fasi nel rapporto tra l'allora imprenditore e Cosa nostra. Il primo, per l'appunto precedente alla guerra di mafia degli anni Ottanta, in cui tramite Dell'Utri l'ex premier avrebbe pagato i boss per assicurarsi la loro protezione a Milano temendo per sé e la sua famiglia. "Dopo la morte di Bontate - ha sempre detto Galliano - ci fu una stasi e Berlusconi non pagava più, né Dell'Utri riceveva più Cinà. Allora - e da qui decorre la seconda fase - Riina, per far tornare Berlusconi a pagare, tramite i catanesi fece mettere una bomba davanti casa sua. A quel punto lui cercò aiuto tramite Dell'Utri e tornò a pagare".

Cancemi e le “persone importanti”
Di “persone importanti” in contatto diretto con Totò Riina in persona aveva parlato Salvatore Cancemi, reggente del mandamento di Porta nuova e dunque appartenente alla Cupola. “Ho il dovere di riferire queste circostanze  che io ho vissuto in questi anni da protagonista. Nel 1990 o 1991, in questo momento non riesco a essere più preciso – raccontò ai magistrati - […], Ganci Raffaele mi disse che Salvatore Riina voleva parlarmi, ci incontrammo nell’ormai famosa villa di Girolamo Guddo. Riina cominciò parlando di Vittorio Mangano, persona che peraltro non era molto gradita allo stesso Riina perché in passato Mangano era vicino a Stefano Bontate. Riina mi disse di riferire a Mangano che non doveva più interferire nel rapporto che lo stesso aveva instaurato da anni con un tale Dell’Utri, collaboratore di Silvio Berlusconi, perché da quel momento i rapporti con il Dell’Utri li avrebbe tenuti direttamente Riina. Quest’ultimo precisò che, secondo gli accordi stabiliti con Dell’Utri che faceva da emissario per conto di Berlusconi, arrivavano a Riina 200 milioni l’anno in più rate, in quanto erano dislocate a Palermo più antenne (questa è l’espressione che usò Riina, ma ovviamente si riferiva a emittenti private)”. Cancemi aveva aggiunto che quei soldi arrivavano in più “rate da 40-50 milioni”. Ma tra le altre cose Cancemi disse anche che Riina nel 1991, gli riferì che “Berlusconi e […] Marcello Dell’Utri erano interessati ad acquistare la zona vecchia di Palermo e che lui stesso (Riina, ndr) si sarebbe occupato dell’affare, avendo i due personaggi ‘nelle mani’”.
Anche testimonianze di altri importanti esponenti della mafia palermitana, poi divenuti collaboratori di giustizia, tra cui Giovanni Brusca, aggiunsero dettagli dei rapporti sull'asse mafia-Dell'Utri-Berlusconi. Brusca indicò “come regalo, come contributo, come estorsione” il denaro versato da Berlusconi a Cosa Nostra, e Gaetano Grado, che affermò che una parte degli ingenti guadagni del traffico di droga furono investiti dalla mafia, tramite l’azione di Dell’Utri, nelle società di Silvio Berlusconi.
Qualche anno fa Brusca ha riferito anche un ulteriore dettaglio parlando di un summit avvenuto nel Trapanese tra i capimafia nel 1995 in cui si parlava dell'ipotesi di rapire il figlio di Pietro Grasso, allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia. Ed è in quell'occasione che avrebbe appreso, direttamente da Matteo Messina Denaro (boss trapanese tutt'oggi latitante) che Silvio Berlusconi si incontrava con il capomafia Giuseppe Graviano. Non solo: il boss di Brancaccio avrebbe addirittura notato un orologio al polso dell’ex premier del valore di 500 milioni.
Che l'ex Premier possa essersi incontrato direttamente con Graviano è uno degli elementi su cui oggi sta investigando la Procura di Firenze che ha riaperto il fascicolo sui mandanti esterni delle stragi del 1993 (indagati Berlusconi e Dell'Utri).
L'impulso investigativo era stato dato dalle parole pronunciate in carcere dal boss Giuseppe Graviano, quando venne intercettato dai pubblici ministeri palermitani del processo sulla ‘trattativa Stato-mafia’, mentre parlava con un compagno di cella, Umberto Adinolfi nel carcere di Ascoli Piceno ("Berlusca mi ha chiesto questa cortesia… per questo è stata l’urgenza…” diceva il capomafia siciliano lasciando intendere che proprio Berlusconi potrebbe aver avuto un qualche ruolo in quella terribile stagione).un qualche ruolo in quella terribile stagione.
A queste parole poi si sono aggiunte le dichiarazioni spontanee dello stesso Graviano nel processo 'Ndrangheta stragista, tutt'ora in corso a Reggio Calabria.
Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, “Madre Natura” (così chiamavano Graviano i suoi picciotti) ha affermato di aver incontrato Berlusconi da latitante in tre occasioni e che l’ultima sarebbe avvenuta nel dicembre del 1993, ovvero poche settimane prima del suo arresto (avvenuto il 27 gennaio 1994), in un appartamento a Milano 3. ("È successo a Milano 3, è stata una cena. Ci siamo incontrati io, mio cugino e Berlusconi. C'era qualche altra persona che non ho conosciuto. Discutiamo di formalizzare le società").

La carta scritta
La natura di quei rapporti tra la famiglia Graviano e Silvio Berlusconi sarebbe di tipo economico e, a detta del capomafia, sarebbero risalenti ai primi anni Settanta quando il nonno sarebbe stato interpellato "per investire al Nord, venti miliardi di lire. Gli dicono che gli avrebbero concesso il 20 per cento". "Mio nonno (Filippo Quartararo, ndr) voleva partecipare a quella società e curarsi le sue cose - aggiunge nel suo flusso di coscienza - Andò da mio padre che però gli disse che non voleva saperne e che non voleva che coinvolgesse noi nipoti. Intanto mio nonno quei soldi non li aveva, aveva messo insieme solo quattro miliardi e mezzo. Morto mio padre, mio nonno dice a me e a mio cugino, Salvatore Graviano, che camminava sempre con lui, la verità, ci dice della società con gli imprenditori del Nord, perché non aveva nessun altro a cui rivolgersi. Disse: 'C'è questa situazione, io sto andando avanti. Tuo papà non vuole che mi rivolga a voi. Io sono vecchio e ora te ne devi occupare tu. Io e mio cugino Salvo abbiamo detto: ci pensiamo. Ci siamo consigliati col signor Giuseppe Greco, padre di Michele Greco. Abbiamo deciso di sì e siamo partiti per Milano. E mio nonno ci ha presentato al signor Berlusconi, abbiamo capito cosa era questa società. Poco dopo mio nonno, che aveva più di 80 anni, morì".
E poi ancora aveva aggiunto: "Berlusconi ci ha presentato la società, eravamo solo lui, io, mio cugino e mio nonno con l’avvocato Canzonieri e che voleva che i nostri nomi apparissero nelle carte della società perché i soldi erano leciti, puliti, dovevano entrare formalmente nella società mio nonno e quelli che avevano investito i soldi. Noi eravamo lì con mio nonno perché lui ormai era molto anziano, dovevamo essere pronti a prendere il suo posto una volta morto".
Il 14 febbraio 2020, sempre nel processo davanti alla Corte d'assise di Reggio Calabria, aveva dichiarato: "La teneva mio cugino: nel 2002, quando stava per morire, sua moglie mi mandò una lettera perché lui voleva parlarmi. E' andato mio fratello, ma lui voleva parlare con me. Forse, voleva dirmi dov'era la lettera".

Il legale di Berlusconi Nicolò Ghedini (oggi deceduto), aveva da sempre definito quelle dichiarazioni come "totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonché palesemente diffamatorie".
Ed anche i giudici della Corte d'assise di Reggio Calabria, sulle affermazioni in aula di Graviano avevano ritenuto non credibili le dichiarazioni (“Con riferimento ai presunti rapporti di natura economica con Silvio Berlusconi riferiti dall’imputato va sottolineato che essi risultano totalmente indimostrati essendo su questo punto le dichiarazioni del Graviano prive di qualunque riscontro”).
Lo abbiamo già detto in altre occasioni e lo ripetiamo. Le parole di Graviano vanno prese con le pinze. Non è un collaboratore di giustizia, non è un dichiarante e, a differenza del fratello Filippo, non ha nemmeno tentato la carta della dissociazione da Cosa nostra. Parla per interesse.
Affari economici, questioni politiche e l'ombra di un coinvolgimento nelle stragi. Il legame tra Berlusconi e Dell'Utri sembra essere infinito.
Il sospetto sull’origine dei primi finanziamenti alla Fininvest lo avevano avuto già i pm di Palermo nel 1994. Però chiesero l’archiviazione non ritenendo di aver trovato elementi per sostenere nemmeno un’ipotesi di riciclaggio.
Adesso però la Procura di Firenze vuole andare fino in fondo. Nell'ultimo anno erano state disposte una serie di perquisizioni anche tra i familiari di Graviano. Il 23 marzo scorso la Cassazione aveva annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Firenze che aveva confermato i decreti di perquisizione, e a luglio si è tornati nuovamente davanti al Tribunale del Riesame di Firenze.
E' nell'ordinanza depositata il primo luglio 2022 che si è appreso ciò che i pm fiorentini intendono dimostrare. “Quanto si è ricercato con la perquisizione – è la tesi dei magistrati – è strettamente correlato alla verifica della sussistenza di un’intesa stragista finalizzata a rafforzare l’accordo raggiunto da Cosa Nostra con Berlusconi e Dell’Utri a ridosso delle competizioni politiche del marzo 1994 nonché alla ricostruzione dei rapporti economici tra i Graviano e gli indagati circa il versamento di 20 miliardi di lire da parte di esponenti di Cosa Nostra a favore di Berlusconi”.
Dunque secondo i pm “i rapporti preesistenti e protratti fino al periodo interessato dalle stragi e la ricostruzione dei flussi finanziari intercorrenti tra gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri ed esponenti di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano in particolare, nel quadro di una reciprocità di interessi che rappresentano il terreno fertile sul quale si è costruita l’intesa stragista che ha portato all’esecuzione delle sei stragi pianificate nel biennio 1993-1994”.
E' tutto scritto nero su bianco. Il lavoro del procuratore aggiunto Luca Tescaroli e del procuratore facente funzioni Luca Turco si muove in più direzioni.
Anche per questo sono stati rispolverati vecchi verbali di collaboratori di giustizia come Gioacchino Pennino, massone ed esponente di spicco di Cosa Nostra, rilasciato ai pm Gabriele Chelazzi, morto nel 2003, e Pietro Grasso, attuale senatore, nel 1997.
Anni fa furono valutate come "inutilizzabili" dal Gip di Caltanissetta, Giovan Battista Tona, che archiviò l’accusa contro Dell’Utri e Berlusconi per le stragi del 1992. In quel provvedimento, datato 2002, si ricordava come le affermazioni di Pennino fossero “de relato” e del tutto generiche.
Oggi, però, tornano attuali. Pennino raccontava che “i rapporti tra Berlusconi e Dell’Utri e gli ambienti di ‘Cosa Nostra’ erano per così dire un fatto risaputo all’interno di ‘Cosa Nostra’ (…)”.
Di queste indagini, tutt'altro che improvvisate, spesso ci si dimentica, anche per colpa di una stampa prona e silente.
Nessun dubbio. Nessun sospetto. Neanche quando la recente sentenza sulla trattativa Stato-mafia ha ribadito il legame tra Cosa nostra ed il partito Forza Italia.
Secondo i giudici della Corte d'assise d'appello, infatti, Marcello Dell’Utri, fondatore e poi senatore del partito, siglò “un deplorevole accordo politico-mafioso” con i membri di Cosa Nostra, incontrando “personaggi mafiosi” nel biennio “1993-1994”, all’epoca della nascita di Forza Italia e del primo governo Berlusconi.
Tuttavia sull'ex senatore, che è stato assolto assieme agli ex vertici del ROS dei carabinieri dall'accusa di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, non vi è la prova oltre ogni ragionevole dubbio che abbia veicolato all’allora Presidente del Consiglio Berlusconi le minacce mafiose.
Scrive la Corte d'assise d'appello presieduta da Angelo Pellino nelle motivazioni della sentenza: “Sono emersi elementi tali da far ritenere che, tra il 1993-1994, Dell’Utri abbia effettivamente incontrato personaggi mafiosi (non solo siciliani) per intessere un patto politico-mafioso nel quale si inserivano anche e, anzi, soprattutto, per quanto emerge in questo processo, gli incontri di Vittorio Mangano con Dell’Utri per ricapitargli i desiderata di Cosa Nostra”. E poi ancora, evidenziano i giudici, si è registrata “una convergenza di interessi tale da portare a votare Forza Italia sempre per il tornaconto dell’organizzazione mafiosa secondo un deplorevole accordo politico-mafioso siglato con Dell’Utri, ma non per questo di tipo minaccioso/stragista”. L’ex senatore di Forza Italia avrebbe portato avanti “quest’opera di mediazione per canalizzare il voto mafioso in previsione di assicurare dei vantaggi all’organizzazione” e lo fece “su input, tra gli altri, di Bernardo Provenzano e Giuseppe Graviano”.
E in Cosa nostra si scelse “di appoggiare il neo costituito partito politico Forza Italia nella convinzione che, grazie al canale con il suo leader Silvio Berlusconi, garantito dai risalenti e ampiamente sperimentati rapporti con Dell’Utri, si sarebbero potuti ottenere i benefici per i quali tutta l’organizzazione mafiosa si era impegnata sin dalla metà del 1992”.
Tutti elementi che in un Paese normale avrebbero portato ad un dibattito politico-istituzionale.
Nulla di tutto ciò.
Nel Paese dalla memoria corta, in rotta verso gli abissi di un nuovo fascismo vediamo anche il ritorno in Parlamento di un pregiudicato come Silvio Berlusconi, l'imprenditore che pagava la mafia.
Aspettando che inchieste e processi facciano il proprio corso indignarsi, manifestare dissenso, ribellarsi all'oblio, pretendere verità e giustizia e difesa di quei pochi che la ricercano quotidianamente (magistrati, forze dell'ordine, familiari...), è forse l'unica via che resta.
Perché i fatti sono fatti e non possono essere cancellati.

Foto © Imagoeconomica

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