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Forze dell’ordine bloccano il corteo promosso da un cartello di associazioni antimafia

Osservare le forze dell’ordine in tenuta antisommossa agire contro inermi cittadini che manifestano nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci provoca un senso di profonda vergogna. La stessa che si prova nel vedere accanto alla sorella del giudice assassinato il presidente della Regione Renato Schifani, a lungo indagato per mafia e poi archiviato, così come il sindaco di Palermo Roberto Lagalla, sostenuto durante la sua campagna elettorale da Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro, due condannati per mafia (il primo per concorso esterno in associazione mafiosa, il secondo per favoreggiamento). Ma in questo mondo al contrario vedere comunque tanti giovani, uomini, donne, famiglie intere con bambini, che gridano “Fuori la mafia dallo Stato” restituisce l’onore a un Paese ferito. Tradito da quel pezzo di Stato che non sopporta di essere chiamato in causa.


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Le immagini degli scontri vicino l’Albero Falcone parlano da sole, e raccontano di persone colpite, buttate a terra, spintonate. Il comunicato della Questura riferirà di tre agenti feriti. Le successive polemiche che sono scaturite (con versioni discordanti tra Questura e manifestanti) riportano indietro le lancette degli orologi. Trent’anni fa la gente contestava con forza le lacrime di coccodrillo di uno Stato che – si è scoperto poi – mentre scoppiavano le bombe stava trattando con la mafia. Oggi siamo andati ben oltre il coccodrillo. Adesso chiunque rivesta un ruolo istituzionale, o venga “autorizzato”, a prescindere da qualsiasi sua frequentazione, o archiviazione per fatti di mafia, è legittimato a sorridere alle telecamere ricordando “il sacrificio di Giovanni Falcone”. Per un popolo che pretende verità e giustizia ecco invece che sono pronti i manganelli. Questo non è più solo un “circo Barnum”, qui siamo passati al “Rocky horror picture show”, dove le maschere di alcuni protagonisti rivelano la parte più buia dello Stato. Che ne ha fin sopra i capelli delle richieste di verità sulle stragi e sui mandanti esterni. Che non vede l’ora di chiudere la bocca a chi si ostina a pretendere quella verità.


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E quale mezzo migliore per tappare le bocche se non attraverso una sorta di repressione che ricorda in maniera embrionale quella già sperimentata negli anni ‘70? Per fermare un movimento di opinione si comincia con l’ostruzionismo, cercando di favorire le divisioni interne; dalle minacce si passa ai manganelli e si finisce infiltrando qualche killer di Stato che si prende la briga di fare il gioco sporco. L’omicidio di Giorgiana Masi è solo la punta di un iceberg, per non parlare dei black bloc che, durante il G8 di Genova nel 2001, scendevano tranquillamente dai loro pulmini senza che nessun agente intervenisse. “Com’è possibile che abbiano controllato così ossessivamente chiunque entrasse in città e non abbiano intercettato i black bloc?”, chiedeva Giorgio Bocca a Concita De Gregorio. Che rispondeva laconica: “Si possono rileggere le migliaia di carte dei processi, le decine di reportage, vedere le ricostruzioni video, ma la risposta a questo elementare quesito non si trova”. (...) “Ora che sono passati vent’anni possiamo dircelo. È andato tutto come doveva andare. La catena di comando è stata precisa e implacabile. Nessuno è passato inosservato, erano tutti dove dovevano”. (...) “Un ragazzo morto, ottocento feriti, migliaia di intossicati. Danni calcolati. L’importante era dare un segnale esemplare: mostrare chi comanda”. Già, mostrare chi comanda. Anche oggi. Dopo i tragici eventi di Genova il rischio di rivivere simili momenti è quanto mai oggettivo.


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Nel 2008 Giusto Catania venne eletto al Parlamento Europeo (membro del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica); il 29 ottobre di quell’anno presentò un’interrogazione parlamentare il cui incipit fa ancora riflettere: “In un'intervista rilasciata al quotidiano «Il Resto del Carlino» il 23 ottobre scorso, l'ex Presidente della Repubblica italiana, ex Presidente del Senato, ex Presidente del Consiglio ed ex ministro degli Interni, nonché attuale senatore a vita Francesco Cossiga ha fatto delle inquietanti dichiarazioni, delineanti una vera e propria strategia antidemocratica e violenta al fine di reprimere il dissenso democratico espresso in libere manifestazioni pacifiche. Nell'intervista l'ex ministro degli Interni consiglia all'attuale omologo di «fare quel che feci io quando ero ministro dell'Interno», ossia «infiltrare il movimento con agenti provocatori» e lasciare così che i manifestanti «mettano a ferro e fuoco la città». Dopodiché, afferma che le forze dell'ordine «non dovrebbero avere pietà» e «mandarli tutti in ospedale», «picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano»”. Grazie a Dio Francesco Cossiga non c’è più, ma al di là dei segreti di Stato che si è portato nella tomba, ha avuto l’ardire di lasciare questo suo testamento a chi ha intenzione di proseguire la sua linea. Che evidentemente può risultare alquanto funzionale a un sistema che intende mantenere il proprio potere. In un momento storico come questo, contrassegnato da tensioni sociali, disoccupazione e grave instabilità, cavalcare la rabbia popolare e portarla ai livelli più estremi può servire a destabilizzare il contesto sociale, così da continuare a mantenere nascosti gli scheletri negli armadi. Che non devono assolutamente uscire.


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E chissenefrega se bambini, ragazzi, donne o anziani restano traumatizzati negli scontri con le forze dell’ordine, potevano restare a casa e non avrebbero avuto problemi! Il messaggio che volente o nolente passa è chiaro: manifestare può essere pericoloso, e soprattutto non è consentito dissentire. Fate parlare piuttosto chi è stato autorizzato, e non fate troppo gli schizzinosi: tanto il più pulito ha la rogna. Detta così sembrerebbe che l’unica soluzione sia la resa o l’esilio. Ma come diceva Pippo Fava: “A che serve vivere se non si ha il coraggio di lottare?”. A ribadire quel concetto c’è un uomo, Riccardo Orioles, che quel coraggio di lottare lo ha fatto suo da decenni, nonostante la perdita insanabile del suo mentore. Il suo ragionamento è di quelli da tenere a mente: “E’ di moda, di questi tempi, schernire l’antimafia, aggredire i ‘professionisti’ che vi ‘fanno carriera’ (quando non li ammazzano), applaudire compuntamente i falsi antimafiosi e combattere quelli veri. Ma i giovani non ci stanno e non ci stanno i cittadini onesti. Noi dei Siciliani, che da quarant’anni portiamo avanti questa lotta, appoggiamo i ragazzi che civilmente e coraggiosamente hanno onorato Falcone, i suoi fratelli e tutti coloro che hanno dato dolore e sangue per la libertà di noi tutti.
Organizziamoci, stiamo uniti, e andiamo avanti. Falcone non va ricordato solo nel giorno di Falcone, ogni giornata è buona per ricordare che l’antimafia vive”.


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Foto © Pietro Calligaris

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