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Il Pg chiede la conferma della condanna per rivelazione segreto d'ufficio

E' iniziato quest'oggi, a Brescia, il processo d'appello per Piercamillo Davigo, ex componente del Csm ed ex magistrato simbolo del pool di Mani Pulite, condannato lo scorso 20 giugno a un anno e tre mesi (pena sospesa) per rivelazione di segreto d'ufficio nell'inchiesta sulla presunta loggia Ungheria. Per la difesa, gli avvocati Davide Steccanella e Francesco Borasi, la sentenza di condanna è "profondamente sbagliata e per questo meritevole di essere impugnata" perché Davigo - presente in aula - avrebbe agito nell'ambito delle sue funzioni. 
Di diverso avviso i giudici del tribunale che hanno invece accolto la richiesta della pubblica accusa che aveva chiesto la condanna dell'ex magistrato per aver preso dalle mani del pm milanese Paolo Storari - assolto in via definitiva al termine del processo abbreviato - i verbali segreti di Piero Amara in cui l'ex avvocato esterno di Eni ha svelato l'esistenza della presunta associazione massonica. 
Le dichiarazioni furono rese da Amara in più interrogatori, tra il 6 dicembre 2019 e l'11 gennaio 2020, nell'inchiesta sul cosiddetto 'falso complotto Eni', di cui Storari era uno dei titolari. 
Una consegna avvenuta a Milano nell'aprile del 2020, per stessa ammissione di Storari, a casa di Davigo a cui fu data una pen drive con gli atti secretati per poter denunciare la presunta inerzia a indagare da parte dei vertici della procura milanese - in particolare dall'allora procuratore di Milano Francesco Greco e dall'aggiunto Laura Pedio - sull'ipotetica loggia Ungheria di cui avrebbero fatto parte personaggi delle istituzioni e delle forze armate, oltre che due componenti del Csm in carica in quel momento. 
Per il rappresentante della pubblica accusa, il pg Enrico Ceravone la necessità di informare Davigo per 'vincere' la presunta inerzia della procura di Milano, è una "narrazione ingannevole" come dimostra l'archiviazione per omissione di atti d'ufficio dell'ex procuratore Francesco Greco e dell'aggiunto Laura Pedio, titolare con Paolo Storari dell'inchiesta sul cosiddetto 'falso complotto Eni'. 
Al momento delle confidenze di Storari e della consegna dei verbali secretati all'imputato "era assolutamente chiaro che la consegna avveniva clandestinamente" e che si trattava di un "passaggio non rituale", il tutto con "l'assenza di una ragione ufficiale che legittimasse a svelare atti secretati". La tesi difensiva della non opponibilità del segreto investigativo a un singolo consigliere del Csm non convince il pg di Brescia Enrico Ceravone che cita le circolari "non contraddittorie" e il regolamento interno del Consiglio superiore della magistratura, quest'ultimo indicato sempre come "organo collegiale" dove le questioni hanno "un preciso iter di trasmissibilità". Invece, la scelta di Davigo di informare i colleghi del Csm, e non solo, trasforma atti riservati nel "segreto di Pulcinella". Se poteva esserci da parte di Davigo "l'intima convinzione della necessità di agire velocemente" di fronte al rischio che le rivelazioni di Amara potessero avere un 'effetto' sul Csm, tuttavia "c'è una gestione privata" con un "danno" per le indagini della procura di Milano. Per il pg, che ha 'smontato' i motivi d'appello della difesa, laddove si assolvesse Davigo si potrebbe andare verso un "futuro distopico dove ogni singolo pm potrebbe consegnare atti secretati al singolo consigliere Csm con il rischio di trasformare il Csm da organo di tutela a luogo di amplificazione di ogni notizia di reato". 
Per tutti questi motivi il Pg ha chiesto la conferma della condanna di primo grado.
Nelle motivazioni della sentenza della prima sezione penale di Brescia, presieduta dal giudice Roberto Spanò, si spiegava come non vi fossero sponde per la "tesi della non opponibilità del segreto investigativo a un singolo consigliere, così come del resto non ha trovato appiglio l'eventualità che fosse ammissibile la circolazione di atti riservati in assenza di passaggi formali".
Per la corte l'imputato "ha cavalcato l'inquietudine interiore" di Storari, il quale si è rivolto a lui per avere un consiglio, e lo "ha indotto a compiere un atto extra ordinem quale la consegna brevi manu di copia dei verbali secretati", mentre la strada maestra era di investire il Csm della questione. In possesso delle copie dei verbali Davigo "ha allargato in maniera indebita la platea dei destinatari della rivelazione" e 'non si è 'acquietato' nemmeno dopo aver raggiunto lo scopo asseritamente perseguito, ossia quello di instradare il procedimento 'Ungheria' nei binari della legalità". Una rivelazione ai colleghi del Consiglio superiore della magistratura (e non solo) che sarebbe avvenuta con "modalità quasi carbonare" e con precauzioni - l'incontro avveniva nel cortile del Csm e senza cellulari - che per i giudici "appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale". Davigo, in possesso di quei verbali, "ha utilizzato il tema dell'asserita appartenenza massonica per fare terra bruciata intorno ad Ardita (Sebastiano, ndr)", ex componente del Csm e parte civile nel processo (difeso da Fabio Repici). Tuttavia i giudici del tribunale non sono in grado "di comprovare con un sufficiente grado di certezza che abbia strumentalmente ottenuto prima - e divulgato poi - i verbali di Amara animato da una cosciente volontà di propalare un'accusa che sapeva mendace in ragione di personalismi o di intenti ritorsivi dovuti a dissidi insorti nel passato con l'ex amico".

Foto © Imagoeconomica

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