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Il fratello di Paolo Borsellino parla di via d'Amelio e dell'impatto che i segreti scoperti dal giudice avrebbero avuto sul Paese

Sono trascorsi solo pochi giorni dalla morte del noto boss mafioso Matteo Messina Denaro. La sua dipartita è sopraggiunta poco dopo la sua cattura, quasi come se volesse aumentare i sospetti che vedono il suo arresto, come il tentativo di ottenere le migliori cure palliative da parte di chi avrebbe dovuto catturarlo prima, ossia quando le condizioni di salute avrebbero forse favorito qualche possibilità di ottenere informazioni utili sulla trattativa Stato-mafia, oltre che a garantire una maggiore permanenza in carcere. Il fratello del giudice Paolo Borsellino e fondatore del Movimento delle Agende Rosse, Salvatore Borsellino, sembra esserne convinto e lo ha ribadito anche durante l'incontro trasmesso via social da “Informazione Antimafia”. “La morte di Messina Denaro, così rapida dopo la cattura, mi conferma che non si è trattato di un arresto che può essere considerato come il successo dello Stato, ma come l’intenzione di chi, sentendosi alla fine della sua vita, ha deciso di farsi curare dallo Stato, piuttosto che a spese proprie. Come mi aspettavo - ha spiegato il fratello del giudice assassinato in via d’Amelio - non è venuto fuori nulla dalla sua cattura e si porta nella tomba i segreti sui rapporti incestuosi avvenuti tra mafia e Stato”. Informazioni scomode che potrebbero essere state seppellite persino con la morte dell’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dal momento che “anche lui si è portato nella tomba i segreti che riguardano le garanzie che a mio avviso - ha precisato Borsellino - riguardano la trattativa Stato-mafia; nonostante delle sentenze che hanno dimostrato che con la mafia si possa convivere e trattare”.

Una giustizia in stato confusionale
La trattativa c'è stata e ha portato ad altre stragi”, ha ribadito anche questo Salvatore Borsellino, mentre spiega che dovrebbe ritenersi controproducente, oltre che “eticamente inaccettabile”, una trattativa che invece di salvare vite finisce per alimentare altre stragi. 
Quella trattativa non è servita a fermare le stragi, come affermano quelli che l’hanno portata avanti, ma ha portato ad ottenere altre stragi”. Se viene concessa la possibilità ai mafiosi, oppure “a chi per loro”, di pensare che la trattativa può essere vantaggiosa, allora “si cerca di alzare il ‘prezzo’. Lo ha confermato soprattutto la strage di via d’Amelio, visto che non è stata l’ultima”. Dopo quella trattativa è stata realizzata la strage di via dei Georgofili, via Palestro e gli attentati che Cosa nostra ha messo in pratica contro il patrimonio artistico italiano, “dopo che alcune menti raffinatissime hanno suggerito a questi criminali che se un giudice viene ucciso, subito salta fuori un altro che bisogna assassinare: se viene ucciso Giovanni Falcone, bisogna uccidere anche Paolo Borsellino”. Una scia di sangue che sarebbe proseguita con “Roberto Scarpinato, Nicola Gratteri e Nino Di Matteo. Se invece viene attaccato il patrimonio artistico dello Stato - ha proseguito il fondatore delle Agende Rosse - il ricatto passa ad un altro livello”, poiché si tratta di un’eredità che non può essere ricostruita. “In ogni caso, è una giustizia in stato confusionale quella che riesce a dare tre risultati diversi, in tre processi che riguardano lo stesso reato”. 

L’invito in Commissione Antimafia
Recentemente, Salvatore Borsellino ha confermato le sue intenzioni di accettare l’invito di Chiara Colosimo, presidente della Commissione Antimafia, a riferire insieme al suo legale, l'avvocato Fabio Repici, in merito all’attentato di via d’Amelio. Una richiesta che la presidente Colosimo ha deciso di presentare di persona al fratello del giudice Borsellino, dopo che i parlamentari del Movimento 5 Stelle hanno contestato la decisione di ascoltare solo Lucia Borsellino e il suo legale, il marito Fabio Trizzino. Ricordando l'invito ricevuto, il fratello del giudice ha espresso l'intenzione di mettere in evidenza i possibili sviluppi che avrebbero potuto seguire la decisione del giudice Borsellino di rendere pubblica la notizia che, in quel momento, “lo Stato stava negoziando con gli assassini di Falcone. Questo avrebbe potuto scatenare una guerra civile nel nostro Paese. È per questo motivo che Paolo doveva essere fermato ed eliminato”.

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