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uomo-fiammedi Savino Percoco - 3 febbraio 2015
Francesco Dipalo, da poco escluso dal programma di protezione, denuncia l’indifferenza dello Stato verso la sua famiglia
Nella serata di venerdì 30 gennaio, innanzi alla Prefettura di Monza, il testimone di giustizia Francesco Dipalo ha tentato il suicidio, contestando così il Ministero dell’Interno dal quale si sentiva scarsamente tutelato.
Secondo il racconto della moglie, l’uomo avrebbe richiamato l’attenzione delle autorità, versandosi del liquido infiammabile e avviando un innesto incendiario.
Le fiamme, disinnescate con idranti dai vigili del fuoco, hanno causato ustioni su varie parti del corpo, senza causare danni alla vita di Dipalo, trasportato in ambulanza presso un ospedale di Milano dove adesso è ricoverato.
Un gesto estremo, riconducibile all’esasperazione e alla sofferenza di chi lotta per la giustizia, talvolta isolato e non sorretto proprio da quello Stato che dovrebbe invece proteggerlo. Desta scalpore, infatti, il silenzio e l’indifferenza del Viminale di fronte a quelle missive che per mezzo fax o email il testimone di giustizia inviava annunciando il suicidio per una data intorno al 4 febbraio se lo Stato non fosse intervenuto in tutela della sua famiglia e in particolar modo dei suoi figli, che dopo le recenti intimidazioni riscontrate ad Altamura (Bari), sentiva minacciati.

Nonostante ciò, per via del termine processuale relativo all’incidente probatorio in cui lo stesso Francesco Dipalo è stato testimone, lui e i suoi familiari sono stati da poco esclusi dal programma di protezione per i testimoni di giustizia.
Non è la prima volta che l’ex titolare della Venere S.r.l giunge a gesti estremi per chiedere maggior considerazione agli organi di competenza. Nel 2011, a causa delle ristrettezze economiche derivanti dal suo status di testimone di giustizia, protestò con un megafono davanti al tribunale di Bari dove giunse in treno (“senza pagare il biglietto”) e senza scorta.
“Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Voglio solo far sapere che fine fa, chi si schiera dalla parte dello Stato: i miei tre figli non vanno a scuola perchè non ho soldi, e non ho neppure 200 euro per pagare loro le spese per il dentista”.
Dipalo è un uomo giusto, che ha fatto scelte contro la mafia sacrificando tutta la sua vita e quella della sua famiglia senza vedere giustizia. Molte sue accuse contro il crimine organizzato e gli intrecci con la politica sono state confermate anche da altri testimoni e collaboratori di giustizia, racconterà sua moglie. La donna spiega che in primo grado molti mafiosi sono stati condannati, mentre i colletti bianchi assolti: “Mio marito rispetta le sentenze, ma alcune appaiono strane. Le sentenze si accettano ma non comprendo, perché la Procura di Bari non abbia fatto ricorso in Appello, nonostante chiedesse alcuni anni di reclusione durante la prima fase processuale“.
Il gesto dell’ex imprenditore potrebbe sembrare un sintomo di pazzia, ma in linea con quanto avviene con tante situazioni simili accadute ad altri testimoni di giustizia. Basterebbe ricordare la storia di Lea Garofalo, giunta persino a dormire in tenda e in pieno centro pur di proteggere sua figlia Denise, fino allo sfratto delle forze dell’ordine. Questo evidenzia una carenza delle istituzioni nel piano di tutela verso quella gente che sceglie di mettersi sotto la mira dei cecchini, testimoniando contro la criminalità organizzata.
Dipalo lamenta persino scarsa attenzione dello Stato nel rendergli lettere relative alle udienze che lo vedevano testimone, parte civile e in al alcuni casi querelato, ritrovandosi condannato e privato del diritto di parlare e raccontare le ragioni di talune accuse contro determinati soggetti.
Il Ministro Alfano e l’intera politica, a cominciare dal Premier Renzi che tanto si espone con belle parole contro le mafie, adesso intervengano concretamente e studino un serio progetto di protezione per i testimoni di giustizia.

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